La Terra è rotonda.
Detta così sembra un po’ banale, ed è anche inesatta.
Per la precisione la Terra è una sfera; per una precisione ancora più precisa, la forma del pianeta sul quale viviamo è quella di un geoide, ovvero di una sfera un po’ schiacciata ai poli e con varie anomalie.
Ma insomma, come quasi tutto quello che riguarda il cosmo, ma anche la biologia, la forma del nostro corpo celeste ha a che fare con il cerchio: è avvolgente e avvolto, concluso in sé. Aperto verso l’esterno, chiuso verso il suo interno. Non presenta spigoli, le anomalie sono estremamente contenute; fatta eccezione per le coste marine e – con qualche distinguo e perplessità – i più alti profili delle più alte montagne, non esistono confini naturali.
L’uomo è comparso all’incirca un milione di anni fa, e di lì in poi le regole del gioco sono cambiate in modo radicale e definitivo. Il numero degli esseri umani poco a poco nei millenni è aumentato vertiginosamente. Gruppi di uomini hanno colonizzato terre sempre più lontane tra loro; i corpi si sono modificati attraverso meccanismi di selezione complicati e non del tutto chiariti, principalmente per adattarsi alle condizioni ambientali della zona prescelta. Pelli chiare, pelli scure, pelli intermedie… capelli a grano di pepe, lisci, ricci… resistenza o sensibilità a questo o quell’enzima… e via elencando.
Lo sviluppo tecnologico attuale, i viaggi intercontinentali e gli spostamenti di massa stanno rimescolando le carte, e con esse le razze, ma resta un enigma assoluto la previsione del momento esatto in cui – se mai avverrà – l’intera Terra sarà abitata da una sola razza con caratteristiche intermedie e omogenee.
Il concetto di razza ha un valore da parecchi e differenti punti di vista, ma tutti in qualche modo connessi alle scienze umane: paleoantropologia e antropologia culturale, etnografia, fisiologia, morfometria, per non citarne che alcuni.
Nessuno – NESSUNO – dal punto di vista filosofico, morale o peggio ancora ontologico.
Visto che l’uomo è nato unico e inevitabilemente tenderà a ritornare unico, è naturale pensare alle razze come a un effetto ottico, un escamotage temporaneo, sia pur di durata lunghissima, apparentemente interminabile, ma in realtà terminabilissimo. Per fare questo, però, occorre avere il coraggio di compiere un piccolo passo indietro: di osservare, cioè, la gran scena del mondo salendo su una collina, anche poco rilevata.
Da quella collina potremo scoprire quali e quanti altri trucchi l’umanità ha saputo ideare nel corso della sua storia; e si tratta nella quasi totalità dei casi di scappatoie inventate per conquistare, sottomettere, espandersi, offendere (nel senso etimologico di colpire contro, per ferire e abbattere). Provincie e reami, repubbliche e imperi, federazioni e arciducati sono altrettanti strumenti partoriti per difendere e perpetuare quel primo effetto ottico, ovvero la distinzione in popolazioni.
Non esistono popolazioni, non dovrebbero esistere stati: nulla di nulla nel mondo naturale può supportare in modo anche minimo o tangenziale questo concetto. La genetica delle popolazioni lo spiega benissimo: se da un lato sembra avvallare l’idea che esistano hic et nunc i popoli – e che siano una realtà obbiettiva e immutabile – d’altro canto mostra come il genoma di ognuno di noi sia una zuppa di infiniti, diversissimi ingredienti.
Nulla di ideologico e di preconcetto è in grado di giustificare l’istituzione di steccati. Tantomeno la proprietà privata.
Divisioni, muri e fili spinati, confini, barriere e dogane, armi convenzionali, l’arte balistica, i deterrenti chimici e nucleari, le guerre calde e fredde, stupide e intelligenti…
Di invenzione in invenzione, di follia in follia in un crescendo che non sembra conoscere limiti, è sorta a latere una retorica impennacchiata ma altrettanto letale: la divisa, la bandiera, gli inni nazionali, l’onore, la difesa. Gli eroi.
Chi per la patria muor vissuto è assai.
È l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende.
Quelli che sono eroi visti da davanti, da dietro – nella stragrande maggioranza dei casi – vengono descritti o percepiti come carogne e terroristi. Certi stati dedicano monumenti e giornate di commemorazione a quegli stessi personaggi che sono stati condannati a morte – e spesso mai riabilitati – in altri stati.
Eppure.
Eppure, se per caso sbarcassimo su un pianeta abitato da altri esseri viventi e di intelligenza paragonabile alla nostra, ci aspetteremmo di trovare una popolazione compatta. Una situazione uniforme. La pace ci sembrerebbe la condizione normale e naturale, non una utopia irraggiungibile, buona tutt’al più per qualche romantico e anacronistico sognatore. I venusiani su Venere, i marziani su Marte, i papalliani su Papalla. Tutti lavorano perché tutti stiano bene. Nessuno fa guerra a nessun altro. La legge non oppressiva difende, incanala e rende possibile questa pacifica attività.
Come ha da essere. Semplice, no?
Ci sembrerebbe grottesco scoprire che su un tal pianeta vive una genia di creature paranoiche divise in migliaia di gruppi e gruppuscoli, stati staterelli e tribù, perennemente sul piede di guerra nel tentativo di arricchirsi gli uni alle spese degli altri. Presi e persi in una corsa all’arraffare ogni giorno più vertiginosa, che li lascia sempre più infelici e stremati. E spessissimo anche morti.
Ma come – ci chiederemmo – un pianeta così bello, per quale motivo deturparlo con confini tanto innaturali quanto invalicabili? Per quale ragione una parte piccolissima di quegli strani esseri detiene e consuma una parte enorme di risorse del pianeta, lasciandone priva l’altra parte, ben più consistente?
Già, perché?
Dietro i tragici orpelli della retorica ufficiale, del segreto e della ragion di stato si nasconde un’altra realtà, che come sempre ha a che fare con quell’istinto alla prevaricazione che da tempi immemorabili contrassegna l’umano agire: ed è la ragione economica. Non a caso il primo e il secondo mondo – brutalmente contrapposti al terzo, quello più povero e abbandonato – tributano un onore esagerato, oltreché ai calciatori, ai fashion blogger e alle popstar, anche ai personaggi che bazzicano nella finanza e dintorni. Top manager, businessmen di ogni tipo e prestasoldi di lusso vivono grazie a stipendi tanto incredibili quanto insensati e non di rado vengono indicati come modelli di stile e di comportamento.
Vecchissima storia: chi ha vuole ancora di più, e questo vale sia per il singolo arrampicatore sociale, sia per la struttura collettiva più articolata.
Tutto si mercifica, e più il tessuto sociale è avanzato, più il fenomeno è evidente: l’istruzione, la salute, il tempo libero, tra breve persino l’acqua di fonte, hanno un prezzo e per poterli utilizzare bisogna avere la capacità economica di farlo.
Altrimenti? Altrimenti niente.
Certo, si obbietterà: ma un conto è amministrare uno stato di 50 o 100 milioni di persone, un conto è un dominio planetario, che oltretutto nasconde un rischio tutt’altro che remoto di dittatura globale.
Osservazione giustissima. Le nazioni avrebbero da essere quello che per loro natura sono: semplici strumenti amministrativi locali, giurisdizioni nate per rendere più snello il controllo della pace e del benessere dei cittadini. Per favorire mescolamenti e integrazioni, non certo il contrario.
Il bene dell’altro – quando è stato ottenuto in modo lecito e onesto – non diminuisce il mio, ma lo accresce. Banalissima osservazione, a cui quasi nessun potente fa mai riferimento.
I grandi flussi di massa a cui assistiamo in questa epoca ce lo ricordano nel modo più efficace: al di là degli aspetti criminosi e schiavistici della faccenda – che vanno indagati e perseguiti – questi terremoti sociali sono provocati da poveri disperati che semplicemente tentano di riprendersi quello che gli è stato sottratto nei secoli precedenti.
L’accoglienza e l’integrazione devono categoricamente essere immediate: e non si tratta di cortesia o generosità. In ballo è la questione – già sollevata da illustrissimi maîtres à penser – della restituzione della refurtiva. Punto e stop.
Non siamo sudafricani, statunitensi o cinesi: siamo cittadini del mondo. E come tali dobbiamo avere il diritto di autosituarci nel posto migliore per la nostra personale sopravvivenza e per il nostro sviluppo umano.
L’integrazione è un diritto naturale e non negoziabile: non certo un atto straordinario, che il potente di turno concede benignamente e in modo paternalistico.
Siamo cittadini del pianeta Terra.
Tutto qui.
E la Terra è rotonda.
Buona pace a tutti.