Io sono razzista.
Ecco una frase che tutti noi dovremmo ripetere spesso.
Strano? Scandaloso? Sbagliato?
No: vero.
Ognuno di noi, al fondo del suo animo, alberga una serie di idee, stati d’animo e sentimenti molto diversi tra loro. Antitetici, addirittura.
È l’eterna battaglia tra opposti: buono e cattivo, angelico e demoniaco, conscio e inconscio, eros e thanatos…
È quello che nella vita politica, in ogni paese dove sia possibile il confronto dialettico tra le parti, prende le forme del progressismo e del conservatorismo, perennemente duellanti.
Anche se ti consideri una persona dalla buona formazione civile, che vive e propone i valori democratici, che cerca di operare al fine di promuovere la reciproca comprensione, che reputa la dignità di ogni essere umano non soltanto non negoziabile, ma anche assolutamente uguale a quella di qualunque altro uomo, eccetera eccetera eccetera…. non puoi affermare di non avere nessuna inclinazione razzista o di non avere alcun atteggiamento discriminatorio.
Basta passeggiare per le vie della città e vedere una persona in sovrappeso, o con disturbi mentali, o dalle apparenze misere e sordide perché immediatamente – succede anche a me, che spesso e volentieri discetto di cose nobili – partano giudizi tutt’altro che lusinghieri.
Lusinghieri: sto utilizzando un eufemismo gentile.
Analizzato con calma, questo giudizio pare accompagnato da una sensazione di superiorità: quel sentimento che da un lato ci fa essere contenti di non essere al posto del malcapitato di turno, e d’altro canto ci induce a ritenerci migliore. Si chiama disprezzo.
È la scoperta dell’acqua calda: numerose ricerche, basate su sondaggi e studi, hanno da molto tempo confermato che anche le vittime del razzismo possono a loro volta esternare comportamenti di tipo razzista.
La struttura del nostro cervello, in larga misura, può aiutare a comprendere il perché di questo atteggiamento e della pratica impossibilità di tacitare tutti gli impulsi alla divisione.
L’encefalo umano, la grande cabina di regia di tutti i nostri comportamenti consci e di tutte le pulsioni inconscie, è fondalmente strutturato su due piani: un pian terreno, di origini filogenetiche più antiche, dedicato alle reazioni più elementari e rudimentali; e un primo piano – il piano nobile – dal quale partono le risoluzioni per le manovre maggiormente complesse e da dove si gode un bel panorama sulle umane faccende. È proprio lì che l’essere vivente tira le fila – anche con considerazioni filosofiche, morali ed estetiche – su tutta quanta la sua attività. È il reparto dei progetti e dei consuntivi.
È questo il motivo per cui questo primo piano – la corteccia cerebrale – è enormemente sviluppata nell’essere umano e va decrescendo, in modo all’incirca proporzionale, man mano che sulla scala zoologica ci allontaniamo dall’homo sapiens sapiens.
Di fronte a un improvviso pericolo il cervello sa benissimo che non può perdersi in elecubrazioni mentali particolarmente complicate: se abbiamo davanti a noi un rapinatore con la pistola spianata, non c’è tempo per analisi sociologiche o sintesi filosofiche. Combatti o fuggi è la parola d’ordine; e decidi il più velocemente possibile, ne va della vita. Il corpo si adatta immediatamente alla nuova situazione: il sudore, l’orripilazione dei peli, la minore percezione dell’eventuale dolore, l’allerta dei sensi (persino la pupilla cambia diametro per ottimizzare la visione) sono risposte inconsce che rispondono in poche frazioni di secondo a ordini espressi per via neuroendocrina e partiti dalla centrale di controllo situata al pianterreno del cervello.
Ritroviamo queste stesse reazioni anche negli animali, anche se molto più vistose: i peli dritti sono praticamente inapparenti in un essere umano, ma un gatto furioso con il pelo gonfio e le pupille dilatate è al contrario uno spettacolo niente affatto rassicurante.
Lo scenario cambia in modo radicale quando siamo, ad esempio, nelle quiete sale di un museo d’arte: uno dopo l’altro scorrono davanti ai nostri occhi i capolavori di epoche lontane e le stimolazioni che giungono al nostro sistema nervoso centrale sono di tipo essenzialmente diverso. Non c’è nulla da cui fuggire – a parte le prolisse spiegazioni di qualche cicerone un po’ troppo pedante. Nessun nemico si sta mimetizzando tra le fronde della foresta, non dobbiamo cacciare e non corriamo il rischio di venir cacciati. Quello che si mette in moto allora nella materia grigia sono sensazioni e considerazioni di natura storica, estetica, filosofica… Ci spingiamo avanti sulla base della curiosità, stabiliamo confronti, diamo giudizi di merito, proclamiamo principi universali. Peli, pupille e ghiandole sudorifere sono in perfetta quiete. È il momento in cui la maggior parte del lavoro viene effettuata dal primo piano.
Che c’entra tutto ciò con il razzismo o con l’antirazzismo? Il discorso è in fondo semplice, ma non per questo semplicistico. L’empatia è un frutto prevalentemente corticale; un prodotto nobile, verrebbe da dire.
Prevalente non significa esclusivo: lo dimostra – tra le tante altre – anche la grande quantità di testimonianze filmate e messe ogni giorno in rete, dove si vedono animali parecchio distanti dal genere homo capaci di atti di solidarietà intra e interspecifica.
Ciò non toglie che la prima reazione di fronte a un pericolo o a una minaccia sia di tipo fondamentalmente istintivo. Anche il giudizio, nelle sue prime fasi, soggiace alla stessa legge: nessuno, di fronte a un accampamento lurido e maleodorante di nomadi o di profughi, o davanti a un ladro in manette, prova subito istinti solidali, pedagogici e costruttivi. Al contrario, le indicazioni che giungono istantaneamente dalla parte bassa del cervello tendono a voler mettere ordine nella situazione: baracche rase al suolo, terreno bonificato, malviventi in galera (per lo più buttando via la chiave), bambini a scuola.
Quando due persone di parere opposto discutono di pena di morte, un passaggio obbligato è che il fautore del supplizio ben presto dica: vorrei vedere se uccidessero tuo figlio…
È verissimo: quanto più lo stimolo è forte, tanto meno le considerazioni alte riescono ad avere il sopravvento sugli istinti bassi. L’uccisione di un parente caro provoca una tale valanga di dolore che è quasi impossibile sottrarsi al desiderio di una rivalsa: anche quando la giustizia, come nel caso della citata pena di morte, si trasforma in pura e semplice vendetta.
Il compito della legge è proprio questo, tra le tante altre peculiarità: serve ad arginare la personale e individuale sete di vendetta, persino là dove questa scaturisca da sentimenti più che comprensibili. A difenderci da noi stessi nei momenti in cui la parte istintuale tende a obliterare quella pensante.
Non crediamo di essere molto lontani dalla verità se universalizziamo il principio e asseriamo che le destre politiche, e in genere tutti gli estremismi, si fondano su politiche che principalmente provengono dal pianterreno del cervello (sei diverso da me, ho paura di te, ti tengo separato da me, magari ti elimino; difendo chi mi somiglia, la mia razza, la mia patria, le mie tradizioni); le democrazie evolute e le sinistre, almeno quelle moderate, basano al contrario il loro fondamento in ragionamenti e filosofie decisamente più complessi, dunque frutto di attività prevalentemente corticali.
Lo schema ovviamente semplifica di gran lunga una realtà enormemente più complessa; ma a grandi linee lo si può considerare utile per la comprensione dei nostri indirizzi politici, sociali ed economici; e per correggerli, quando sia il caso. L’attività cerebrale superiore mette in cammino l’essere umano; l’istinto e l’inconscio tendono invece a paralizzarlo.
Ecco perché fascismi ed estremismi di tutti i colori hanno dato e danno frutti piuttosto omogenei tra loro, quali muri e fili spinati, campi di concentramento, pene capitali, blocchi al dialogo, repressioni di massa. Che sia nazista o comunista, un lager e un gulag – seppure costruiti in ottiche diverse, la prima ancora più feroce e bestiale della seconda – finiscono per assomigliarsi.
Ci sono differenze molto ampie, ma un genocidio è il punto di arrivo di una disposizione – o forse occorrerebbe dire di una indisposizione – verso l’altro basata sul sospetto, sulla paura del diverso e sul disprezzo. Una grande marcia inizia con un piccolo passo, si dice: questo è purtroppo vero anche per i prodotti delle ideologie aberranti. Coloro che pensano sia giusto aiutare i poveri a casa loro, per fare sì che non vengano a delinquere o a rubare il lavoro a casa nostra, non solo compiono una indagine socio-economica completamente sballata; ma si incamminano anche su una strada che prima o poi potrebbe portarli a giustificare atroci pulizie etniche.
Tutto ciò non sposta di un solo millimetro la primitiva questione: ovvero, la considerazione che un piccolo parlamento, con tutte le sue nuances politiche, è ospitato anche nei vari piani e nei differenti nuclei del nostro cervello, e che prima di raggiungere una soluzione matura di un problema anche minuscolo (ad esempio, accogliere come futuro genero o futura nuora una persona con precedenti penali e/o con colore della pelle diverso, e/o con un altro credo religioso) siamo obbligati ad attraversare in un primo tempo i territori del nostro inconscio dominati dall’ansia del diverso. Con tutte le conseguenze del caso.
Ancora una volta, l’aiuto fondamentale viene dato dalla scuola, quando libera e responsabile: pur facendo lo slalom tra i luoghi comuni, per evitarne almeno qualcuno, non si può non attribuire alla cultura il ruolo che le compete per sua stessa natura, ovvero quello di una guida che aiuta l’elaborazione di idee e comportamenti empatici, privi di pregiudizi e preconcetti, e liberi dalla paura che ciò che è nuovo e non conosciuto sia sempre e soltanto temibile o nocivo.
Siamo tutti razzisti, facciamocene una ragione: ma proprio in quanto senzienti e pensanti – nonché soggetti al libero arbitrio – siamo anche in grado di affrancarci a un certo punto dall’odioso imprinting e di giungere a territori abitati dal dialogo, dalla comprensione e dalla accoglienza.
Buon cammino.