Sarà capitato a molti, di fronte a una edicola o a un espositore di libri in libreria, di imbattersi in una serie di manuali dai titoli invitanti e più o meno simili, quali Come vincere la paura e parlare in pubblico, Come essere convincenti, Strategie vincenti di marketing, Trovare il mercato ideale… e così via, all’infinito.
Fare soldi, battere la concorrenza, avere successo, raggiungere il prestigio o farsi crescere i muscoli sembrano la principale – l’unica? – preoccupazione della struttura sociale dei nostri giorni che, per ribadire meglio il concetto, lo ripropone fino allo sfinimento anche attraverso i modelli della pubblicità più o meno occulta, dei talk show, dei reality e del cinema commerciale. Il marito o la moglie devono essere statuari, le auto lussuose, le case sontuose, i figli (bellissimi anche loro, figuriamoci!) perennemente sorridenti. Il divario tra i (dis)valori della cosiddetta società dell’immagine e ciò che quella stessa società ha realizzato nella pratica sono stati e sono oggetto di studi numerosi e approfonditi da parte della letteratura specializzata. Avrei poco o niente da aggiungere in merito.
Più modestamente, oggi, vorrei focalizzare invece un altro aspetto, che forse merita ancora qualche puntualizzazione.
Il punto è: come mai questa generazione anela (l’umanità lo ha sempre fatto, fin dalla radice dei tempi) alla felicità, e più di ogni altra che l’ha preceduta sembra avere capito con enorme chiarezza che cosa sia questa felicità e quali siano i mezzi per raggiungerla; eppure, pare non avere concretizzato nulla o quasi su questa via, anzi sembra che la quantità di sofferenza complessiva non sia affatto diminuita rispetto alle epoche precedenti? Come mai sulla scena hanno fatto la loro comparsa nuovi mostri, accanto ai vecchi, che di volta in volta prendono le apparenze della incomunicabilità chiassosa, dell’annientamento della struttura famigliare, delle droghe di ultima generazione – particolarmente insidiose e velenose -, delle armi sofisticate, manovrate sia da governi ufficiali, sia da organizzazioni clandestine e potentissime, in grado di dare alle nuove guerre una fisionomia inusitatamente atroce?
Già: come mai?
La risposta è semplice e per ciò stesso spaventosa. La semplicità, che è sempre faticosa e anticonformista, spaventa.
Essa va ricercata in quelle persone che la felicità l’hanno trovata realmente. Non si parla certo della felicità esplosiva, effimera, fine a se stessa tipica dei momenti di euforia; ma della appassionata concretezza che giustifica in questi uomini e donne il loro essere vivi; lo rende possibile, lo spiega, ne invoglia la trasmissione.
Che cosa rende simili un bravo insegnante e un medico, una giovane suora innamorata di Dio e uno scienziato laico? Un missionario e un artista? Qual è il loro segreto, posto che sia un segreto?
L’unico e ultimo tratto comune che posseggono personaggi tanto diversi sta nella capacità di aprire la porta del proprio Io e far entrare l’alterità. Il raggiungimento più difficile e portatore di gioia che un essere umano possa effettuare.
Sono vivo, ho capito il perché, spero che altri, anche grazie a me, siano vivi nello stesso modo.
Tutto qui.
Semplice? No, per nulla.
Dopo secoli di indicazioni e prediche in questo senso siamo ancora qui a misurarci l’un l’altro a seconda del reddito, a inventarci marketing sempre più mirabolanti e aggressivi, a essere intimamente convinti che l’importante non sia partecipare, ma vincere. Guarda caso, siamo sempre più soli e infelici.
Spalancare le porte all’alterità rischia di essere niente altro che un nobile luogo comune o una indicazione moraleggiante se non lo si comprende e lo si accetta come una componente essenziale del nostro essere e del nostro vivere quotidiano.
È ora di capire che non abbiamo bisogno di una leggera virata, di una modifica di toni e sfumature, di un elegante ma sobrio maquillage.
Abbiamo bisogno di invertire del tutto la rotta.
È giunto il momento di sostituire la chiacchiera con il silenzio fecondo.
Aprire la porta in questo caso non è affatto un’azione indolore. Significa frantumare il proprio Io; o quantomeno metterlo in discussione e prendere atto delle fratture esistenti.
L’Altro – chiunque esso sia e in qualunque modo lo intendiamo: umano, Assoluto, Dio – può entrare attraversando un‘apertura, una crepa; non certo una corazza, una barriera di filo spinato o un muro di cemento.
Realizzare un’apertura implica una demolizione più o meno estesa. Uno smantellamento. Una rinuncia al dominio assoluto di noi stessi. Un mettersi nelle mani di Chi ne sa più di noi.
Non stiamo preparando il salotto buono per ricevere gli amici al té delle cinque; dove magari fare bella figura. Stiamo per regalare ciò che abbiamo di più prezioso e delicato.
Cerchiamo un posto nel mondo? Bene: il nostro posto lo troveremo quando riconosceremo agli altri il diritto di avere spazio nel nostro cuore, e gli concederemo di entrare. Anche se hanno le scarpe sporche.
Non dobbiamo invadere, ma farci invadere. La conquista non dà altrettanta felicità quanto l’essere conquistati.
Da dove cominciare?
Dal basso e dal piccolo, come sempre. Iniziamo a spegnere il cellulare, almeno ogni tanto. Magari ci accorgeremo che qualcuno vicino a noi ha bisogno del nostro ascolto.
Un primo, minimo passo; altri ne seguiranno a breve.
Il cammino deve avere un principio, non importa quale. Importa che sia adesso.