Le banalità, alle volte, possono salvare la vita; o almeno cambiarla. Tentiamo allora di rivalutarle, almeno un po’.
Tutto sta a considerarle da un diverso punto di vista.
Se dico: “Per risolvere un problema, bisogna risolvere quel problema” affermo qualcosa che non lascia dubbi, e che non può neppure essere criticato. In realta’ fa un po’ ridere: e’ ovvio. Banale, appunto.
Mettiamoci tuttavia a pensare quante volte abbiamo posto il problema in un’altra prospettiva: ovvero siamo andati al cuore della questione e l’abbiamo affrontata per quello che è; abbiamo impiegato tempo e concentrazione mentale per capire quali fossero l’estensione e la natura del problema e quali fossero le vie di uscita e infine ci siamo dati da fare con passione fino a quando abbiamo superato l’ostacolo.
C’è un problema? Bene: il primo passo è rendersi conto che il problema esiste. In un secondo tempo occorre valutare quale ne è la gravità. Non bisogna sottovalutare il primo aspetto: in moltissimi casi una persona che ha un problema non sa di averlo, e questa senza alcun dubbio è la cosa più grave. Non si può risolvere ciò che non esiste.
Un rubinetto che perde o una gomma a terra sono eventi facili da diagnosticare; ma una evenienza più complessa – per esempio un rapporto difficile tra due persone, in cui si mescolano fattori diversi e impalpabili quali gelosie, rancori, narcisismi, differenti culture, oppure le difficoltà di rapporto con l’altro – potrebbe essere ben più difficile da rilevare. Il primo problema, come abbiamo già accennato, è non sapere di avere un problema.
Un esempio classico è il legame tra genitori e figli o tra suoceri e generi/nuore: quando difficoltoso, lo si può fronteggiare o considerandolo normale (è sempre stato così e sarà sempre così), oppure attribuendo tutte le colpe all’altro. Sono entrambe scappatoie che non portano a un sostanziale miglioramento della situazione.
Andare alla radice del problema è tutt’altra cosa, ma e’ assai piu’ difficile: si tratta di ascoltare l’altro, individuando gli elementi positivi del suo pensiero, anche quando discordanti dai nostri; e di mettersi seriamente in discussione, cercando di capire se c’è qualcosa nel nostro modo di vedere che non funziona, e che cosa è. Nello stesso tempo, occorre tenere ben presente che avere ragione non è un reato: se dopo un attento discernimento capisco quali e quante sono le mie ragioni, ho tutti i diritti di farlo presente e, nei limiti dei singoli casi, procedere speditamente sulla mia strada, con tanti saluti a vittimismi e autoflagellazioni.
Un atteggiamento di questo tipo richiede lungimiranza, volontà e una buona dose di umiltà. Ci vuole anche coraggio. In certi casi si rischia di sembrare rompiscatole. Roba da adulti, insomma.
Di fronte a un rubinetto che perde acqua – problema decisamente semplice – le nostre azioni non sono molto diverse dai casi più complicati: spesso infatti anche in queste situazioni tendiamo a intervenire tardi e ancora più spesso lasciamo che siano altri ad agire. “Non lo so fare” è la giustificazione più comune. Chiamiamo l’idraulico. Eppure, se un altro essere umano lo sa fare, è evidente che è possibile farlo e che è alla nostra portata. Ci manca la voglia e il tempo. In definitiva, ce ne manca la volontà. Quanti di noi conoscono uomini e donne con “le mani d’oro”? Non sono di solito geni o supereroi: sono soltanto persone normali che hanno scelto di dedicare tempo – talvolta molto tempo – a impratichirsi con i ferri da maglia e il legno, la pittura su ceramica o le riparazioni domestiche. Hanno trovato semplicemente la motivazione giusta.
La diversificazione di lavori e competenze ha portato a una specializzazione sempre più marcata, ormai quasi patologica: in ambiente medico si scherza dicendo che tra non molto ci saranno chirurghi per il polmone sinistro e chirurghi per il polmone destro. È chiaro che una parcellizzazione così spinta delle conoscenze rende di fatto impossibile sapere tutto: essere in un colpo solo, chirurghi e imbianchini, pianisti, informatici e avvocati, astronauti e baristi acrobatici è fuori della portata umana.
Tuttavia, l’iperspecializzazione rischia di diventare anche un alibi: siccome non si può sapere tutto, mi accontento di sapere quel poco che mi consente di sopravvivere alla meno peggio e delego agli altri tutto il resto.
I luoghi comuni sono banali, certo: ma se sono divenuti comuni è perché nascondono un fondo di verità.
Veniamo così alla banalità delle banalità. Affermiamo qualcosa di talmente ovvio da rasentare il ridicolo: per fare la pace bisogna fare la pace.
È proprio qui che si capisce la portata della posta in gioco: pacificarsi per pacificare significa cambiare l’ordine delle cose del mondo, contrastare un istinto naturale – quello alla competitività e alla lotta per la supremazia – che gli umani hanno ereditato dal resto del mondo animale più evoluto, avventurarsi in un terreno ricco di incognite, affrontare un processo che richiede quanto meno una enorme dose di coraggio e di umiltà. Soprattutto, richiede che sia io a fare il primo passo (la pace incomincia da me, Le Parole dell’Arcobaleno).
È più comodo aspettare che sia l’altro a muoversi per primo: che sia il giallo a chiedere scusa al rosso, il nero all’azzurro e così via. Perché il giallo – che attende le scuse dal rosso – naturalmente ha ragione. Anzi, tutte le ragioni. L’altro ha tutti i torti; ovvio, no?
Considerare la pace una utopia buona tutt’al più per qualche sognatore postromantico è una tentazione che – soprattutto in questi tempi di guerre camuffate da “operazioni speciali” – è sempre più frequente. Eppure, se soltanto considerassimo che per fare la pace occorre pacificare se stessi, ed è necessario avere il coraggio di farlo per primi, scopriremmo di fatto che in una sola generazione sparirebbero tutti i conflitti.
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