Giudicare, cioè costruire

Non giudicate, per non essere giudicati è la massima che trae origine dal Vangelo cristiano (Mt 7,1) e con la quale molti di noi si confrontano fin dalla più giovane età.

Una affermazione secca, importante, che sembra non lasciare scampo. Il giudizio, secondo quest’ottica, viene visto come qualcosa di negativo – al pari di un randello – che nessuno sano di mente vorrebbe ricevere a sua volta. Io non giudico: così mi metto al riparo dal rischio di venire giudicato. Sembra semplice: ma in realtà la faccenda presenta lati molto complessi.

Si potrebbe pensare che una simile affermazione impedisca di fatto qualsiasi presa di posizione personale e che, al contrario, induca all’imparzialità e all’equidistanza a qualunque costo. Ma sarà poi proprio vero? Il non giudicate significa che dobbiamo far tacere ogni pulsione che nasce dal nostro profondo e che trova le radici nella passione, nel vissuto e nella prospettiva di vita che ci siamo costruiti? Che dobbiamo metterci in rapporto con gli altri esclusivamente tramite discorsi che somigliano più a comunicati stampa, che a un normale rapporto tra esseri senzienti?

Pensiamo un attimo – per rendere chiari sia il problema, sia la sua soluzione – a eventi provocati dalla mano dell’uomo e dalla valenza negativa. Anche estremamente negativa: più estremizziamo il problema, più è facile comprendere quale debba essere il nostro agire (e questo modo di procedere – enfatizzare per chiarificare – è un ottimo modus operandi universale). Pensiamo a una grande strage, a un genocidio: è difficile restare impassibili e non esprimere alcun tipo di giudizio. Se sentissimo giustificare Hitler per via della sua infanzia difficile penseremmo a uno scherzo di pessimo gusto. Se le immagini di cadaveri e tutte le altre gallerie degli orrori che i mezzi di comunicazione quotidianamente ci propongono non suscitassero in noi alcuna forma di giudizio potremmo dubitare a ragione non solo dei nostri istinti naturali, ma anche della nostra facoltà di discernere il bene dal male.

Com’è facile intuire, dunque, l’assenza totale di giudizio è impossibile, e sarebbe anche deleteria e disumana: non per nulla la mamma chiede al piccolo figlio di essere giudizioso: cioè, di utilizzare quel tanto di capacità di discernimento che, in modo relativo alla sua età, egli ha a disposizione. La radicale auto-imposizione di non giudicare porterebbe a una assenza di azione pratica; e sembra nascere più dalla indifferenza che dal rispetto delle regole o dal desiderio di non fare del male.

Nella vita spirituale si parla frequentemente di discernimento. Fatti salvi i diversi approcci e i diversi orientamenti, di solito il discernimento è l’atto conclusivo di un processo che parte dal distacco emotivo temporaneo dalle realtà concrete (isolamento, anche soltanto tramite il silenzio) e passa attraverso la meditazione, condotta secondo diverse modalità. A quel punto, e solo a quel punto, subentra la fase discernitiva: che è tout court una forma di giudizio. Anzi, la forma di giudizio, per eccellenza.

Tuttavia, il giudizio può essere utilizzato anche come un’arma affilata e come tale può fare molto male: ne sono un esempio i pettegolezzi, cioè il racconto di aspetti privati e delicati – più o meno immaginari e documentati – della vita altrui. Non di rado, anzi quasi sempre, essi sono accompagnati da giudizi di merito negativi relativi alla persona di cui si sta parlando: Lo sanno tutti… e: L’ho sempre detto… sono due tra gli incipit più comuni dei giudizi che condannano in via definitiva il soggetto del pettegolezzo.

Per non parlare del pre-giudizio, ovvero del giudizio confezionato in precedenza, buono per tutte le stagioni e pronto per essere applicato all’occorrenza così com’è, senza nessuna ulteriore discussione: gli indiani sono sporchi, le donne non hanno logica, i meridionali sono disonesti e pigri… e via elencando. Il pregiudizio spalanca le porte al razzismo (anzi, ancora di più: lo sostanzia e lo giustifica) e il razzismo a sua volta è l’anticamera di orrori in molti casi persino difficili da descrivere.

A questo punto si pone il problema dei problemi: ovvero, come si può e si deve giudicare l’altro in modo da non ferire nessuno? Quali indicazioni possiamo ricavare da un percorso spirituale serio quale, ad esempio, il Cammino della Benedizione?

Non giudicare semplicemente per non essere giudicati (non dare un pugno, che potresti riceverne due) è una visione evidentemente troppo semplicistica per una pagina evangelica di questa portata; ed è anche un atteggiamente che non porta a nulla.

Cio’ che si dovrebbe fare, in realtà è molto semplice: il giudizio va sempre usato, senza paura, anche quando è più che negativo. I nemici è sempre bene chiamarli per nome e cognome, e questo è uno dei principi cardine del Cammino della Benedizione, oltreché di molti percorsi psicoterapeutici. Tuttavia, avere le idee chiare e una appropriata visione morale delle diverse situazioni non deve portare ad alcun tipo di danno; non deve giustificare offese evitabili, quando addirittura non gratuite. Il giudizio, in parole povere, è un paio di occhiali, non una ingiunzione del tribunale o una mitragliatrice. Il mio giudizio non deve danneggiare il giudicato: ma, al contrario, essere uno strumento di confronto e, laddove possibile, di costruzione e miglioramento.

Il giudizio, come ogni altra attività umana fisica o spirituale, deve essere costruito ed è soggetto a una disciplina precisa e rigorosa: è frutto di una presa di distanza – dal nostro e dall’altrui pensiero – e deve essere verificato sulla base del confronto con quante più fonti possibile. Solo conoscendo a fondo una persona o una situazione si può formulare un giudizio di un qualche spessore. Non certo accucciandosi nel nido caldo e confortevole dei luoghi comuni oppure dando retta a chiacchieroni faziosi o alla ricerca di una facile popolarità.

Luogo comune? Utopia? Di fronte a un popolo che ne invade sanguinosamente un altro (la cronaca recentissima ce lo insegna) è difficile mantenere i nervi saldi, non giudicare in modo rapido e cercare di fronteggiare la situazione. L’autodifesa – purché legittima – è più un dovere che un diritto; e questo dovrebbe essere serenamente fuori discussione. Ma deve rimanere entro i suoi limiti, che sono quelli della difesa, appunto, senza trasformarsi neppure episodicamente in offesa. E questo è un frutto ben più maturo della capacità di discernimento e dell’attività di giudizio.

La vita ci riserva, per fortuna, una stragrande maggioranza di casi meno drammatici: per i quali tuttavia occorre agire massimizzando impegno e attenzione. Il comportamento deviante di un figlio o una lite da ballatoio, le politiche ambientali o un rapporto difficile sul posto di lavoro meritano sempre la massima attenzione, perché una volta che avremo imparato a utilizzare il giudizio come strumento di costruzione e non di distruzione, non riusciremo più a farne senza.

Alfredo

La parola del mese, novembre 2022

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