Esistono religione buone e religioni cattive? Se sì, qual è il punto di discrimine tra le due? Ecco un argomento spinoso quanto pochi altri, ricco di insidie ed estremamente complesso.
Le religioni e le visioni spirituali in genere hanno un evidente peso pratico nella vita di tutti i giorni. Quanto la religiosità pesi nella vita contemporanea è un tema di riflessione e di radicale ripensamento quanto mai urgente e scottante.
Possiamo iniziare il discorso chiedendoci se le convinzioni religiose possono o devono trasparire nell’agire pratico; oppure – al contrario – domandandoci se il nostro comportamento debba essere sempre e comunque informato ai paradigmi del bene agire, della correttezza, dell’imparzialità, della distanza e dell’obbiettività.
In altre parole, dobbiamo trasformarci in automi razionali e gentili, freddi e perfettamente calibrati tra il troppo e il troppo poco? O, al contrario, possiamo comportarci seguendo con ardore e assolutezza una fede – qualunque essa sia – obbligando chiunque altro a seguire il nostro stesso comportamento? Esite una via di mezzo correntemente praticabile?
Questo caso non è peregrino: dall’aborto alle scelte di genere, dal divorzio ai diritti delle donne – che in alcuni paesi non possono apparire, studiare, lavorare, e neppure guidare una macchina – le fedi, quando fuori controllo, posso portare ad atteggiamenti dittatoriali: siccome si basano su libri considerati sacri, e perciò stesso fuori dalla possibilità di critica, tutto ciò che ne deriva è indiscutibile.
Farlo è obbligatorio, non farlo porta a una condanna.
Perciò, al di là dei comportamenti individuali, le religioni si rivelano inadatte anche a prendere il posto – o a miscelarsi in modo inestricabile, il che di fatto è la stessa cosa – con il potere secolare e politico. Cosa che invece, nel corso dei secoli e in epoca attuale, è successo innumerevoli volte.
Affidarsi, senza giudicare l’esito delle proprie azioni, a una volontà superiore, ispiratrice di testi sacri e dunque indiscutibili, espone al rischio di creare una struttura rigida, collocata al di là dei tempi e dei luoghi, extraumana, quando non addirittura antiumana.
“Il mio Dio è più vero del tuo”; “Il mio libro sacro è l’unico che debba essere seguito”; “Io conosco la Verità, tu no” sono diktat che non ammettono discussione; il dittatore spirituale di turno viene considerato l’unico depositario del messaggio di una Voce che arriva dall’alto e che richiede soltanto di essere obbedita.
Eppure, la percezione che un testo sacro rispecchi autenticamente la voce del Divino è il frutto di riflessioni personali che si intrecciano con altri fattori, quali il tipo di educazione ricevuta e la società nella quale si vive. È – o dovrebbe essere – il punto di arrivo di un percorso personale genuino, delicato, importante, del quale si dovrebbe essere gelosi pur mettendolo fraternamente al servizio dell’altro. Non per nulla si chiama fede, ovvero fiducia. Credere in qualcosa che non si vede, ma che si percepisce. Qualcosa che non ha nulla a che vedere con la devianza psichica, ma che al contrario risponde e dà sfogo a una naturale tensione dell’uomo verso l’alto e verso l’oltre.
L’aggettivo delicato, riferito a questo percorso, non è casuale: siccome tutto ciò di cui stiamo parlando afferisce a una sfera diafana e impalpabile – la fede, appunto, che per sua natura non può essere provata in alcuna maniera, pena la decadenza dalla sua qualità legata a un affidamento a una Entità superiore e misteriosa – l’unico comportamento possibile dovrebbe essere altrettanto delicato e poggiare su un solido basamento di rispetto.
Ancora una volta l’atteggiamento più sano sarebbe quello di mettersi nei panni di un extraterrestre che sbarca per la prima volta sul nostro pianeta: che cosa si aspetterebbe di trovare? Una popolazione libera di avere e sviluppare una fede che nasce dal cuore e dall’esperienza o una banda di psicopatici che si torturano a vicenda nel nome di questo o quel librone sacro?
Domanda retorica, risposta obbligata.
L’unico parametro possibile da adottare è il giudizio: un giudizio difficile che nasce da un lungo percorso di riflessione e di discernimento: nel silenzio – ancora una volta – dobbiamo dar voce all’Assoluto che parla in noi e lasciare che ci indichi la strada del rispetto compartecipato.
Il rispetto compartecipato: un equilibrio difficile, che trova il bilanciamento esatto nel punto in cui si sfiorano l’amore per l’altro e l’amore per la verità. Proprio per questo ne vale la pena.
Questa considerazione apre di fatto la porta a un’altra osservazione: ovvero, se vogliamo parlare di religioni sbagliate o giuste – e dunque distinguerle tra loro – dobbiamo semplicemente guardarne i frutti. Una religione buona fa stare bene; una sbagliata, no.
Una eventuale contro-osservazione è lecita e prevedibile: le religioni non sono né un club méditerranée, né tanto meno un cachet contro l’emicrania. Giusto. Tuttavia, quando i prodotti di una teocrazia – e quasi tutte le religioni hanno attraversato questa fase – sono caratterizzati su larga scala da morte e distruzione, o anche semplice sofferenza, allora occorre chiedersi fino a che punto i personali convincimenti, persino quando appartengono a una maggioranza, possano essere un criterio di governo. Occorre seriamente chiedersi se uno stato, per essere definibile civile, non debba necessariamente essere laico, ovvero equidistante da tutti i suoi componenti.
Dire che non bisogna giudicare le convinzioni religiose altrui, è una conquista che sembra ovvia e scontata. Ma non è proprio così: nel mondo troppi esempi sembrano mostrare l’esatto opposto. Credi o non credi? In quale dio credi? Il mio dio è migliore del tuo… sembrano battute comiche; invece, riflettono atteggiamenti che non di rado – e al fianco di altre motivazioni, in primis quella economica e socioeconomica – stanno alla base di conflitti tremendi.
Un ultimo passaggio, a questo punto, sembra automatico: come numerose altre realtà umane o che hanno a che fare con l’umanità nel senso più ampio del termine – a cominciare dai diritti dell’uomo, della donna, dei bambini, dei giovani, dei vecchi, degli animali… e l’elenco potrebbe continuare – anche le religioni dovrebbero concertare spontaneamente una loro carta dei diritti e dei doveri. Il diritto a esprimere i valori e gli insegnamenti che ognuna di esse propugna, infatti, non può mai essere disgiunto dal dovere di non censurare in nessuna maniera le credenze diverse, a parte quelle violente e antiumane.
Ancora una volta, e in maniera definitiva, qualsiasi libertà di espressione termina nel punto esatto in cui inizia quella dell’altro.
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